lunedì, marzo 26

Dear Sister #1

To: hilde.jk@aol.com
From: hljenks@aol.com
Subject:  

 Ciao Hilde.

Non so se leggerai mai questa mail. Ma dovevo provare.

Papà è morto. Martedì scorso. I funerali sono dopodomani, ma tu stanne fuori.
Non è perché ce l'ho con te, se è questo che stai pensando, ma perché non voglio che rischi la Sand Machine solo per vedere la bara di nostro padre scendere sotto terra.
Ti prego.

Lo so che gli eri affezionata, e so anche che deve essere stato orribile per te doverlo lasciare. Probabilmente ti starai rigirando nei sensi di colpa da allora. Beh non devi. C'è stata la mamma con lui. Non gli è mancato nulla. E no, tu non sei il centro del maledetto universo.

Spero che tu stia bene.

Se puoi rispondimi.

L'importante è che tu non venga ai funerali. Promettimelo.

Ah, qui a Philadelphia ho incontrato una persona a cui sei molto legata. Beh è in pensiero. Fagli sapere che stai bene.
E oggi ho anche conosciuto Matt Simmons. Dice che "ti considera sua amica ma non pretende di affermare con sicurezza che per te sia lo stesso" e blablabla. Comunque sta bene, nel caso ti interessasse saperlo.

Non fare idiozie.

Helen




sabato, marzo 24

Heartwith

Come sto?

Non lo so come sto.

Mi sento come se stessi tentando di riparare una diga crepata. Lì, davanti a quel muro che da un momento all'altro potrebbe cedere, trascinandomi via.

Non ho ancora richiamato la mamma. Non ne ho il coraggio.

Ogni volta che prendo il telefono per chiamarla sento che non posso farcela.

Mi sento scoperta. Vulnerabile. Troppo.

Cerco di tornare quella che ero prima, capace di tenere tutto sotto controllo, di gestire tutto, soprattutto le emozioni scomode.

E invece non ci riesco.

E non riesco nemmeno a richiamare la crosta. Quella scorza di diamante che mi ha salvato la vita. Quella cosa che non ho mai sentito parte di me, ma mi ha sempre fatto sentire più sicura, più protetta.
Stavolta mi ha protetto davvero.
E ora so che non vorrei rinunciarci.
Ma ancora non riesco a pensare che sia parte di me. Più ripenso a quei momenti e più mi rendo conto di sentirmi più simile a chi mi gridava dietro "mostro" che a me stessa...
Forse perché un mostro, per un po', dopo, lo sono stata. E mi piaceva esserlo.
Un automa senza rimorsi, senza emozioni, senza debolezze.

E ora che tutto questo è tornato, amplificato, io non so più. Non so cosa sono, né cosa voglio essere.
E ho paura.

Paura di come mi sono sentita mentre combattevo quelle creature. Paura dell'indifferenza che ho provato nei confronti di chi mi moriva intorno, anche prima che il cuore mi fosse strappato dal petto. Paura di come mi sento ora. Paura di non riuscire più a richiudere quella maledetta falla, di non tornare mai più come ero prima. Paura di risentire mia madre. Paura di incontrare mia sorella. Paura di non rivederla.

E paura di quei fottuti controlli.


mercoledì, marzo 21

Heartless #2

È così strano...

Vedere le cose succedere, e non provare assolutamente nulla.

Papà è morto. Dunque forse era proprio lui, ieri.

So che avrei dovuto dire altro alla mamma, consolarla, probabilmente. O magari piangere con lei. Ma non ne sento la necessità. Forse avrei dovuto fingere... Ma non credo che sarei stata convincente.
E poi in realtà non me ne importa molto.

So che me ne importerà. E probabilmente questo dovrebbe spaventarmi.
Ma evidentemente la paura è un'emozione come le altre, perché non mi spaventa.

Preoccupazione. Questa è un'altra cosa che avrei dovuto provare. Andre, Reed. Le uniche due persone che conosco in tutta la città. Erano lì, lo sapevo. Ma non ho sentito la necessità di sapere dove fossero, se stessero bene.

E poi l'orrore. Ho visto persone uccidersi a vicenda, uccidere bambini, pawns squartare gente per sottrargli il cuore. Le immagini le ho ancora negli occhi. Ma non provo assolutamente niente.

È innaturale.

Eppure forse è molto meglio.

Heartless

È stanca, impolverata, ha la maglia strappata sul davanti e cinque o sei cuori tra le mani. Ha percorso in questo stato tutto il tragitto, prima a piedi dalla Desert ai confini della North, poi fino a raggiungere un posto in cui prendere un autobus che la riportasse a casa, totalmente incurante degli sguardi che aveva addosso. È riuscita in qualche modo ad aprire la porta senza farsi cadere nessun cuore dalle mani, ha salito le scale, e ora li scarica tutti lì, sul tavolo da pranzo, insieme a quelli che ha nelle tasche e nella borsa. Solo il suo prende e porta in camera sua. Lo mette su una mensola alta, giusto per evitare che vada a giocarci il gatto.
Ricorda ogni particolare della serata, compreso suo padre che le sorrideva, che la chiamava, ma non prova alcuna emozione.

Solleva il cellulare per scrivere a Reed, e solo ora nota diverse chiamate perse, dal numero di sua madre.

Increspa la fronte, guarda l'ora, spegne il display del cellulare, che immediatamente suona. Una chiamata in arrivo. Sua madre, ancora. 


- Helen?

- Sì mamma, ciao.

- Helen ma... è tutta la sera che ti cerco... io... 

 

La voce di sua madre è turbata, si incrina, cosa del tutto inusuale per lei.

- Ero fuori mamma. Dimmi.

- ...

- ...

- Oggi. Stasera...
 


Sembra che ora stia piangendo. Helen rimane impassibile, così come il tono della sua voce.

- Dimmi.

- Papà. Ha avuto un collasso, verso le nove questa sera. Hanno fatto tutto il possibile ma...
 


Sì, sono singhiozzi quelli che sente dall'altra parte.

- Ah. Capisco...
 


I singhiozzi cessano, e pare che lo stupore prenda il sopravvento sul dolore.

- ... Helen?

- Sì mamma, ho capito. Papà è morto.

- ...

- ...

- ...

- Mamma devi dirmi altro? Scusa ma sono stanchissima, devo farmi un bagno e andare immediatamente a dormire.

- ...

 

Di nuovo si sentono singhiozzi, stavolta un pianto sommesso, trattenuto.

-Dai mamma, devo andare.


Chiude la comunicazione. Storce poi una smorfia, ma si avvia verso la stanza da bagno, a far scorrere l'acqua calda.



lunedì, marzo 19

Life belts #2

Benissimo. A quanto pare quello stronzo di Maximilian Lee non è poi l'idealista che mi ero immaginata. E questo in parte lo rivaluta, a dir la verità.
Fatto sta che ora so per certo che Leen non è un mio problema.
Io ci ho provato, un tentativo l'ho fatto.
Lee dice che deve pensarci da sola, e allora okay, che ci pensi da sola, e che sia ben chiaro all'Universo, io non c'entro.

Quello che non ho capito, in tutto questo, è se per una come lei la loro porta resterebbe chiusa.

Ma del resto, abbiamo detto che non sono fatti miei, giusto?

Giusto.


 

venerdì, marzo 16

Life belts

Ci risiamo.
Basta una ragazzina a cui l'erba ha messo le lacrime in tasca e sono di nuovo qui a sentirmi una merda.
Come se fosse colpa mia se si è ritrovata a spacciare, se è finita in un ingranaggio da cui non riesce a uscire.
L'ho forse partorita io in qualche casermone ammuffito di Philadelphia? Le ho messo io in mano il primo spinello?
Voleva aiuto? Beh, io non posso darglielo.
Aiuto. Tutti hanno bisogno di aiuto, e la sai la novità? Nessuno ti aiuta. Devi cavartela da solo.
Come se poi fosse facile. Aiutare una ragazzina senza arte né parte, pure ricercata come superumana non registrata... E a buon bisogno  mettendosi contro qualche bella famiglia mafiosa o qualche dannata organizzazione criminale.
Fossero poi pochi, i ragazzini in quelle condizioni, in questa città.

Impara a nuotare, Leen, non ce l'ho un salvagente da lanciarti.



I'm always fine

Un'altra serata gelida.
Appena rientrata a casa sale le scale di corsa, neppure si sfila la giacca, apre il laptop e si siede alla scrivania.
Le dita corrono rapide sui tasti. Rilegge, corregge, inserisce qualche a capo, cambia qualche parola. Rilegge un'ultima volta. Invia. 
E qualcosa si spezza. 
Per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, gli occhi si riempiono di lacrime. 
Dura solo un istante, il tempo che una o due rotolino dalle ciglia, poi il cellulare segnala un messaggio.
Legge, risponde.

Io sto bene.

Io sto sempre bene.




mercoledì, marzo 14

Good morning sunshine

Mattina, piuttosto presto. Il sole inonda di luce la sala su cui si affaccia la penisola che la divide dalla piccola cucina, dove Helen è seduta davanti a un bicchierone di caffè fumante, ormai mezzo vuoto. Tabby le gironzola intorno. Isa non c'è, come del resto è praticamente la norma.
Sorseggia il caffè ripensando alla sera precedente, di cui conserva un discreto mal di testa e sensazioni discordanti.
È stata una bella serata, in fondo. Almeno dopo il primo quarto della bottiglia.
Ripercorre con la memoria il gusto delizioso delle tagliatelle, quello pessimo del vino, i sorrisi e le risate disarmanti del suo commensale, i discorsi troppo seri, alleggeriti dall'alcol, mentre le dita ruotano il bicchiere ormai vuoto posato sul piano in legno. 


Senza preavviso afferra il bicchiere e lo scaglia con rabbia alla base del muro, mandandolo in mille pezzi sul pavimento e facendo sobbalzare Tabby, che si rintana spaurito sotto uno dei mobili. 


Serrando i denti si alza e con tutta calma si mette a ripulire. 


Buongiorno, Philadelphia, ben svegliata. 


 

domenica, marzo 4

Puppies


È tarda notte quando rientra a casa. I capelli fradici di pioggia e gelati dal vento, stanca morta. Sfila gli anfibi all'ingresso e li porta in mano fino alla propria stanza, due piani più su. La casa è vuota, Isa non c'è. Nel salire richiama - Tabbyyyy! - e poi i classici versi che si fanno con i gatti.

Accende la luce nel salone, e subito nota la chiazza umida sul pavimento. Passerà la mezz'ora successiva a ripulire con acqua e ammoniaca ogni traccia che il gattino ha lasciato in casa. Infine lo trova, teso e un po' sperduto, sotto il letto nella propria stanza.

Hey, piccolino...

Dopo un po' di coccole e aver rabboccato con altro latte il piatto di plastica che gli aveva lasciato in precedenza, aver fatto una lunga doccia calda e preparato una tisana, passerà la serata con il gattino sonnecchiante in braccio, ad accarezzarlo distrattamente e a guardare senza vederlo lo schermo del PC, su cui scorrono le immagini di un film. La mente invece è su altre immagini. Lo stadio in tumulto, Sigrid in volo a cui viene strappato il cuore, gli occhi di Julia, Reed che piange a dirotto, gli occhi di Max, blu oltre le occhiaie scure, poi gli stessi occhi che diventano neri, un arco di luce, poi d'argento...

Si sveglia dopo qualche ora con il collo piegato, le spalle indolenzite, l'immagine statica delle locandine degli altri film del provider, il gatto ancora raggomitolato sulla pancia, ormai profondamente addormentato. Mal di gola. Sposta il gatto, che si lascia posare sul letto,  restando acciambellato e tranquillo, chiude il portatile, si infila tra le coperte e dopo poco cade nuovamente in un sonno profondo, punteggiato di immagini assurde, ma probabilmente meno della realtà che la circonda. 



reed tabby