sabato, luglio 28

Dear Sister #2

To: hilde.jk@aol.com
From: hljenks@aol.com
Subject:  

Ciao Hilde. 

Non ho idea se ancora controlli questo indirizzo. Spero di sì, che riuscirai a ricevere questa mail.
 
No, la mamma sta bene, se è quello a cui stai pensando. 

Lo so, non ho vinto il premio sorella dell'anno. Mai. Ma magari c'è ancora speranza, no? 

Ti ho pensato infinite volte nell'ultimo periodo. E non solo perché ora vivo a Philadelphia e perché ho conosciuto i tuoi amici. O almeno, alcuni di loro. Giusto un paio a dir la verità. 
In realtà sono altri i motivi. 

La morte di papà, innanzi tutto. 
Mi sono resa conto di quanto ti abbia odiato. Per quello che gli avevi fatto, sì, ma molto di più per come lui ti amasse, sempre e malgrado tutto. Più di quanto abbia mai amato me. O almeno così pensavo. Fino a quando non l'ho visto, quella maledetta sera. Quella sera ha allargato le braccia, ed è me che voleva stringere, diceva a me di volermi bene. Proprio mentre... Ma no, andiamo per gradi. 

Ho qualcosa da dirti. E non so come dirtelo. Non so da dove cominciare. 

Ho lasciato che tu ti credessi diversa, per tutti questi anni. Che ti sentissi sola. E l'ho fatto senza l'ombra di un rimorso. Almeno fino a quando non ho messo piede qui. Nella maledetta città dove il tuo potere si è risvegliato con prepotenza, dove hai deciso di frequentare quella scuola, di registrarti e di mandare all'aria tutto l'equilibrio stabile e fasullo della nostra famiglia. 

Credevo che l'avrei odiata. Che l'avrei lasciata il prima possibile. 

E invece pian piano mi sono resa conto di essere uguale a lei. Una città complicata, piena di orrori, di cose strane, ma anche di cose meravigliose, di gente che dà letteralmente la vita per gli altri, di panorami mozzafiato, di... tutto quello che rende la vita uno schifo, oppure degna di essere vissuta. 
E forse è così che siamo tutti. Compositi, complicati, ma degni di essere vissuti. Tutti noi, nessuno escluso. 

E io per anni ho rifiutato di viverti. Anzi, per meglio dire, ho rifiutato di vivere me stessa. E di conseguenza anche te. 
Perché alla fine è questo il motivo. Eri troppo simile a me. A quello che sono veramente, per poterti accettare. Ed eri troppo diversa, troppo simile a come avrei voluto essere, per poterti accettare. 
E per lo stesso motivo ho rifiutato Phil, spingendolo fuori dalla mia vita, nella vita di un'altra. 

Hilde, quello che sto cercando di dirti è che anche io ho il gene X attivo. Da anni, tanti anni. Ne avevo 11, quando me ne sono accorta per la prima volta. Ma non volevo e non potevo accettarlo. E l'ho fatto solo da quando sono qui, da pochi mesi. E in questi pochi mesi la mia vita è cambiata così tanto che... 
Sono registrata, ora. E no, non di mia volontà. Ma ho un lavoro che amo, una carriera, potremmo dire, e una casa, una vita. Insomma non potrei mai lasciare tutto come hai fatto tu, solo per vivere le mie convinzioni. 
Perché sì, sono più simili alle tue di quanto avrei mai potuto immaginare. 
Ma sto cercando di fare la mia parte. 

E questo è quanto. Non c'è molto altro da dire. O forse troppo di più di quello che si potrebbe scrivere in una mail. 
Sappi solo che ti voglio bene. Credo di avertene sempre voluto, a modo mio. 
E mi dispiace. Mi dispiace maledettamente tanto, per tutto quello che hai sofferto anche per colpa mia. 
Sappi solo che ho sofferto anche io. Forse in modo diverso. Ma forse è quello che continuo a fare. O che mi nego di fare. 
Non sono mai stata troppo brava con l'introspezione, è una cosa che odio. 
Spero che riuscirai a perdonarmi, prima o poi. 

Abbi cura di te.

Helen




domenica, luglio 22

Alone

Si è svegliata di nuovo. Non sa se sia giorno oppure notte inoltrata, ha perso la cognizione del tempo, e il tessuto nero trapunto di cristalli bianchi che le ricopre il viso e gli occhi non aiuta. Vede nitidamente, attraverso, ma non coglie questo tipo di particolari, complice la luce artificiale di quella stanza d'ospedale.
Sente il bip regolare dei macchinari attaccati a Oracle, lì accanto, la sente respirare regolarmente, lei resta immobile, con gli occhi ormai aperti a fissare il soffitto oltre la maschera. Ripensa alle scene del giorno precedente, all'esplosione che la investe e la fa volare, come una bambola di pezza, quando ormai non ha nulla a proteggerla. Ricorda l'impatto, il respiro che si azzera, il sapore di sangue nella gola, Flare che si trascina lì accanto, le sirene, il viaggio fino all'ospedale, sempre cosciente, poi la mascherina sul naso e quindi il vuoto. Fino al risveglio in quella stanza, qualche ora prima.

È sola. C'è Oracle, lì accanto, ma non è questo che intende. Intende Sola. Non c'è nessuno che possa avvertire, nessuno che sappia della sua doppia vita, a parte Phil, lontano miglia da lì. E in ogni caso è solo uno il viso che le si presenta alla mente. Forse perché l'unico collegato a quei luoghi, nella sua testa. Ci gira un po' intorno, ricorda quel bacio, quel sorriso, quell'abbraccio, poi chiude gli occhi. Meglio così. Che non lo sappia. Né lui né nessun altro. Si nasce e si muore soli. E si soffre anche. Soli. È molto, molto meglio.


 

domenica, luglio 8

Inside

Il primo vero intervento da vigilante.

Philip sarebbe fiero di me. Anzi, probabilmente lo sarà. E forse anche Hilde lo sarebbe.
Ma non se sapessero come sono davvero, come mi sento, quando mi trovo a combattere contro qualcuno che merita la mia violenza e la mia ira.
Non sono una brava persona come loro, o come Elizabeth, una che sa contenersi davanti a un criminale, una che ritiene che qualsiasi vita sia un bene prezioso, che ogni essere umano meriti una possibilità.
È quello che mi hanno rimproverato, per Eileen.
Beh non sono così. In Eileen ho visto una vita giovane, che non ha avuto altre possiblità che crescere nell'inferno, e ne è cresciuta alterata, forse in modo irreversibile. Ma ci fosse stata anche una sola possibilità, a 21 anni, quell'unica possibilità dovevo dargliela.

Ma quando ho davanti un criminale che mi aggredisce o aggredisce qualcun altro accanto a me, o anche solo mi ostacola... Beh, quello merita il peggio che ho da dargli. E non esito un istante a stordire con un calcio un uomo già a terra con le gambe spezzate, se anche solo la sua mente è in grado di ostacolarmi, e non esiterei a tranciargli la giugulare, se la mia vita o quelle di altri fossero a rischio. Ma ho il dovere di controllarmi, quando ho il tesserino addosso. Perché questo dice la legge degli Stati Uniti D'America.
Spero davvero di riuscirci sempre.


 

giovedì, luglio 5

Independence Day

Il 4 luglio.

Ricordo i picnic al parco con tutta la famiglia, papà che ci portava a prendere il gelato, e le litigate con Hilde per essere portate in spalla, lei all'andata e io al ritorno. E poi più avanti, i pomeriggi e le serate con gli amici, il più lontano possibile da mia sorella, fingendo il più possibile di divertirmi e di essere dove volevo essere e come volevo essere. Ma forse lo ero anche...
E poi a Santa Monica, a ubriacarci in riva all'oceano dopo una giornata di bagni e sole, e i fuochi d'artificio sul Golden Gate.
Poi il 4 luglio del 2025, con i Vaasariani su Philadelphia, Hilde che vuole tornarci, io che di fatto decido di fregarmene, e vado a Monterey con Chuck.
4 luglio del 2026, Oklaoma City è ormai sotto il fuoco di Magnus, e noi siamo ad Ada, 90 miglia a sudest, a festeggiare con una barn dance quel 4 luglio senza fuochi d'artificio, perché non possiamo attirare la sua attenzione. Ma si beve, si mangia e si balla, perché la guerra non deve averla vinta, quel fottuto alieno non deve averla vinta, e perché è meglio non pensarci, finché si è al sicuro. 

Me la ricordo, quella notte. Il potere si era spento da un po', da quando avevamo lasciato in fretta e furia la città, sotto i bombardamenti. Ricordo solo di essere svenuta, mi hanno presa e portata via di peso, e quando mi sono risvegliata, ormai ad Ada, non c'era più. E mi sono sentita libera. E vulnerabile, fin troppo. Ma libera.
 

E ora questo. Questo 4 luglio che doveva essere diverso. Doveva essere un vero 4 luglio, uno normale, con le mele caramellate, i palloncini blu, rossi e bianchi e i fuochi d'artificio. E invece no. Li ho sentiti dalla camera del PGH dove Elizabeth dormiva con le costole rotte. Mentre anche io sentivo il sonno arrivare, dopo aver combattuto con tutto quello che avevo in corpo, e dopo aver tremato nel sentire le sirene avvicinarsi. E dopo aver pianto per non poter scappare. Perché non potevo lasciarla lì, in quelle condizioni, dopo che ce l'avevo cacciata io in quel guaio.

E quando l'arrivo dei soccorsi lo vivi con la paura addosso, chiedendoti se ti porteranno via o ti lasceranno andare, dopo che hai combattuto per la tua vita e per quella degli altri, senza poterti chiedere né se e né per quale motivo... Beh, quando succede questo vuol dire che c'è qualcosa che non va.


Ma sto perdendo tempo. Lo so e l'ho sempre saputo. E lo sappiamo tutti, che c'è qualcosa che non va. Come sappiamo che non ci si può fare assolutamente niente.